La band racconta l’essenza di Blacktar, la loro ultima fatica discografica che si sgancia da modelli esterni per recuperare l’espressione più libera e pura

Con il nuovo disco Blacktar, pubblicato da Overdub Recordings, gli IYV firmano un’opera intensa e coerente, frutto di una scrittura libera da vincoli commerciali, capace di trasformare il vissuto personale in un concept album coeso. Il progetto è nato senza premeditazioni: i brani sono emersi come tasselli spontanei di una stessa storia, legati da un filo comune che ha preso forma via via, fino a diventare un disco organico e strutturato.
Il percorso non è stato privo di ostacoli: tra scrittura, prove, rallentamenti e un lungo periodo di gestazione, il processo ha richiesto pazienza e consapevolezza. Ma una volta entrati in studio, le idee erano chiare, e grazie anche al supporto di Tommaso Mantelli in fase di arrangiamento, Blacktar ha preso corpo in pochi giorni.
In questa intervista, gli IYV raccontano l’origine di un album che non si appoggia a modelli esterni, ma si sviluppa come risposta naturale a un dolore che non poteva restare inespresso. Un disco che rappresenta per la band un punto di svolta, nato dalla necessità di dare senso e forma a ciò che brucia sotto pelle.
Quando avete capito che la vostra storia poteva diventare un concept album?
È successo in modo piuttosto naturale: mentre scrivevamo i brani ci siamo accorti che raccontavano frammenti dello stesso vissuto. Non c’è stato nulla di forzato o programmato; semplicemente, abbiamo seguito quello che emergeva spontaneamente. Credo che questa sia proprio una delle cose migliori dello scrivere musica senza l’obbligo di creare un prodotto da vendere a tutti i costi.
Quanto tempo è servito per scrivere, registrare e finalizzare Blacktar?
La scrittura dei provini è stata svolta più o meno nel corso di un anno. Tutto il periodo di prova dei brani per comprenderli e dargli una forma completa è stato mediamente lungo, più che altro per vicissitudini che hanno allungato i tempi non poco. Tuttavia questo ci ha permesso di arrivare alla fase di registrazione con le idee ben chiare sul da farsi. L’amico di vecchia data Tommaso Mantelli è stato di grande aiuto nel portare ulteriore ispirazione per gli arrangiamenti. Direi che il disco è stato registrato in una settimana o poco più (le voci principali e i cori sono stati fatti in due giorni). Poi mix e mastering sono il solito processo che personalmente mi dà l’orticaria, quindi lascio fare.
Avete avuto modelli o riferimenti artistici nel costruire la struttura narrativa del disco?
No, nessuno. È stato semplicemente ispirante scrivere i brani e vedere man mano un’opera prendere forma, definirne la struttura e capire che funzionava. L’intero disco era stato realizzato sotto forma di provini voce-chitarra acustica, con la medesima tracklist. Quando tutto ha fatto click, abbiamo cominciato a provare.
Ci sono stati momenti in cui avete pensato di non portare a termine il progetto?
In questo caso no, in passato è successo. Blacktar rappresenta un momento per noi fondamentale, andava scritto e completato, e così abbiamo fatto.
Qual è l’elemento che ha reso possibile trasformare un dolore vissuto in un’opera compiuta?
Credo che l’arte sia fortemente legata al dolore. Il dolore necessita di essere metabolizzato, analizzato e compreso, altrimenti resta lì a fermentare. Da queste elucubrazioni legate alle proprie vicende o a quelle di chi abbiamo vicino può nascere una reazione di risposta al dolore. Questa reazione può di per sé diventare un’opera.