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THE DARK SIDE OF THE MOON IERI COME OGGI, O FORSE PIÙ

Cinquant’anni di fluido successo per uno degli album capolavoro del rock più venduti nella storia, tra aneddoti da riscoprire e intramontabili emozioni psichedeliche

di Fabrizio Ragonese

 «The Dark Side of the Moon era un’istanza di empatia politica, filosofica e umanitaria che chiedeva disperatamente di venir fuori.»

Così Nick Mason, batterista dei Pink Floyd, descrisse il disco entrato nel guinness dei record per il numero di settimane in classifica (ben 741, record tuttora imbattuto), che quest’anno compie 50 anni tondi tondi e che risponde al nome di The Dark Side of the Moon. Come brillantemente spiegato nella mostra Their Mortal Remains, che ha fatto il giro del mondo (facendo tappa anche a Roma), The Dark Side of the Moon è un album sui problemi quotidiani della vita moderna. La band, ispirandosi all’idea originale di Roger Waters, affrontò nel disco tematiche quali i soldi, la morte, la violenza e la follia. La musica fu perfezionata durante le esibizioni dal vivo nell’anno precedente la sua pubblicazione, mentre i dialoghi e il parlato furono registrati in studio all’ultimo minuto. I roadie, gli amici e altri musicisti – tra cui Paul e Linda McCartney, anche loro impegnati nella registrazione di un album agli Abbey Road Studios (Red Rose Speedway per la precisione) – furono intervistati e fra le domande ne spiccava una in particolare: ‘Hai mai pensato di stare impazzendo’? Le risposte più spontanee e toccanti furono introdotte nell’album. Proprio Paul McCartney fu al centro di un piccolo caso: secondo quanto riportato da Waters, Paul tentò di rispondere alle domande poste in maniera scherzosa, voleva fare lo spiritoso a tutti i costi; questo  causò il disappunto di Waters che escluse le sue risposte da quelle incluse nell’album. 

Il design di impatto della copertina, ideata da Hipgnosis, è una delle immagini più immediatamente riconoscibili dell’intera iconografia musicale e l’LP al suo interno è tra gli album di maggior successo di tutti i tempi e in tutto il mondo.La traccia di apertura, Speak To Me/Breathe è un invito a staccarsi dal ritmo frenetico della quotidianità moderna scandito da azioni ripetitive e stereotipate, simboleggiate dal coniglio che appena scava una buca inizia a scavarne subito un’altra senza fermarsi mai, non rendendosi conto che in realtà sta solo camminando più velocemente verso la tomba. In contrapposizione a questo, il testo invita a fermarsi un attimo a respirare, cioè a cogliere ed apprezzare l’essenza delle cose veramente importanti e che troppo spesso ci perdiamo proprio per l’ansia e la frenesia indotte dalla società di voler produrre e accumulare sempre di più.Segue a ruota l’iconica suite psichedelica On the Run, che allude alla paura di volare, e che a sua volta fa da apripista a uno dei pezzi più leggendari dell’intero album: Time. Il tema è sostanzialmente lo stesso di Breathe (di cui infatti riprende anche la musica nel finale), e cioè un’analisi spietata e fatalista sull’inesorabilità del tempo che scorre e che spesso ci sfugge di mano mentre siamo furiosamente impegnati in progetti confusi e inconcludenti imbalsamati dentro giorni apparentemente uguali e noiosi, fino a quando non ci accorgiamo di colpo che sono passati 10 anni e che anche se i giorni sembrano sempre uguali, in realtà siamo noi ad essere diversi, perché siamo invecchiati.

Roger Waters

L’assolo di Gilmour è considerato tra i migliori 100 della storia della musica, e la ripresa di Breathe nel finale riprende il tema iniziale della tranquillità contrapposta alla frenesia: il protagonista che si ritira in solitudine per sfuggire al caos della vita mondana, godendosi un placido momento di relax a casa, semplicemente scaldandosi di fronte a un fuoco. La successiva The Great Gig in the Sky, altro pezzo iconico tipicamente wrightiano, affronta invece il passo successivo alla ritrovata quiete e tranquillità: la paura della morte, alla quale il brano offre una risposta filosofica, riassumibile nelle parole di Gerry O’Driscoll, portiere irlandese degli studi di Abbey Road, tra le persone intervistate e la cui risposta fu inserita nel brano: “E non ho paura di morire. Qualsiasi momento va bene, non mi importa. Perché dovrei avere paura di morire? Non ce n’è motivo: prima o poi bisogna andarsene.” È naturale che questo brano venga subito dopo Time, perché è proprio quando ci si rende conto di aver sprecato troppo tempo che subentra la paura di morire e di non riuscire a realizzare tutti i progetti che si avevano in mente; ma per i Pink Floyd non ha senso temere la morte in quanto tutti prima o poi devono andarsene.

La corista ClareTorry

Celeberrima la battaglia legale con la corista Clare Torry: ingaggiata per puro caso (furono gli altri a proporre una corista nel pezzo, idea inizialmente osteggiata da Wright, l’autore del pezzo), le fu chiesto di usare la voce come se fosse uno strumento musicale, cosa che lei, forse inconsapevolmente, riuscì a fare in una maniera a dir poco unica. Si dice che Torry abbia fatto tre registrazioni (di cui la seconda finita sul disco) e che alla fine abbia lasciato lo studio profondamente imbarazzata perché convinta che la sua performance non fosse all’altezza, mentre la band era in totale estasi dopo la sua celestiale esibizione, ancora increduli che qualcuno fosse in grado di cantare in quel modo. Era appena entrata nella storia e neanche se ne era accorta. Ciononostante, all’epoca fu pagata la miseria di 30 sterline e soltanto nel 2005, dopo decenni di battaglie in tribunale verrà riconosciuta, più che giustamente, come coautrice del brano. Silenzio assoluto, invece, sui termini economici dell’accordo extragiudiziale, ma c’è da scommettere che si sia trattato di una cifra monstre. 

Richard Wrigth

A seguire, uno dei brani più caustici del disco: Money, feroce critica della futilità del denaro e della superficialità degli stili di vita materialistici, unita ad una critica altrettanto feroce della società moderna, sempre pronta a condannare il denaro come “radice di ogni male” (con tanto di citazione biblica) ma che svela apertamente tutta la propria ipocrisia e avidità non appena vengono toccati gli interessi individuali; emblematico l’invito del protagonista a dividere equamente il denaro, ma senza “prendere una fetta della mia torta”. Tutti condannano il denaro, eppure nessuno è disposto a privarsene. Ecco chiuso il paradossale cerchio della delirante società consumistica che costituisce uno dei “lati oscuri” della natura umana.

David Gilmour

La coda di Money fa da apripista all’intro di un altro pezzo leggendario: Us and Them, brano tipicamente wrightiano che descrive tra il cinico e l’ironico l’assurdità della guerra: il protagonista, un soldato al fronte, si rivolge direttamente al suo nemico, ammettendo che le due fazioni opposte (“noi” e “loro”, appunto) in fondo non sono altro che persone comuni e che se potessero scegliere non farebbero quello che stanno facendo, perché in realtà i conflitti sono causati da personaggi che decidono della vita di migliaia di persone semplicemente spostando delle linee su delle mappe. Poche parole, ma dirompenti, come il sax di Dick Parry, quasi jazzistico all’inizio, ma che sembra gridare disperatamente nel ritornello. Una curiosità: il dialogo durante l’assolo finale è di Alan Parson, colui che ha avuto l’immane privilegio e responsabilità di missare il disco, e che diede la sua risposta alla domanda “quand’è stata l’ultima volta che hai picchiato qualcuno?”

Il brano successivo è Any Colour You Like, brano strumentale che iniziò a circolare nei tour antecedenti all’album per poi essere perfezionato e finire sul disco. Pochi brani come questo possono descrivere la musicalità dei Pink Floyd: psichedelico, onirico, straordinario nella sua semplicità. Il titolo pare si riferisca all’ironia di chi propone una vasta gamma di scelta dove in realtà non ce n’è alcuna e quindi la libertà di scelta è solo illusoria, con un richiamo alla copertina del disco, in cui si vedono i colori dello spettro visibile scomposti dal prisma. 

Nivk Mason

La fine del brano coincide con l’inizio di un’altra punta di diamante del disco: Brain Damage, brano che affronta la tematica della follia, che non è manifesta solo nei casi patologici, ma in realtà è più o meno presente in ognuno di noi, latente ma pronta a riemergere quando meno ce lo aspettiamo. Emblematici i versi che descrivono in poche ma potenti parole il conflitto interiore di chi deve fare i conti con il proprio io deviato, con le proprie paure, i propri lati oscuri, e con quella costante sensazione di avere poco o nessun controllo della propria mente, figuriamoci della propria vita: 
“Tu chiudi la porta e butti via la chiave. C’è qualcuno nella mia testa, ma non sono io. E se la nuvola scoppia, un tuono nelle tue orecchieTu urli e nessuno sembra sentirtiE se il gruppo in cui sei inizia a suonare melodie differentiIo ti vedrò sul lato oscuro della luna”. 

Alan Parson

Anche questo brano fa da apripista alla traccia finale: Eclipse, tanto che spesso vengono citate insieme, essendo l’una la prosecuzione dell’altra. Il testo, apparentemente ermetico, riassume in realtà il messaggio conclusivo dell’intero disco: “everything under the sun is in tune, but the sun is eclipsed by the moon”. Ogni cosa sotto il sole è in perfetta sintonia, ma il sole è eclissato dalla luna, perché alla fine l’uomo, con la sua follia, simbolizzata dal lato oscuro della luna, appunto, alla fine eclissa completamente l’armonia dell’ambiente che lo circonda. A conferma di ciò, la chiosa finale di Gerry O’Driscoll, che ci ricorda che anche se la luna sembra brillare di luce propria, in realtà non è così, perché l’unica cosa che fa brillare la luna è il fatto di riflettere la luce solare, mentre la luna in sé è completamente oscura. Quindi l’unica cosa che fa “brillare” l’animo umano è l’armonia con l’ambiente in cui vive, senza la quale si manifesta tutta l’oscurità, cioè la follia, della natura umana.Capolavoro.Un disco che invece di invecchiare pare ringiovanire, vista l’attualità sempre crescente dei temi trattati e che pare destinata a crescere anche in futuro.

Un album paradossale e contrastante, che catapultò i Pink Floyd nell’olimpo delle leggende della musica, ma che al tempo stesso segnò l’inizio della fine per la band britannica perché, come dirà poi Mason, “tutte le band sognano di realizzare l’album perfetto. Noi ci siamo riusciti. Il problema è che dopo non sai più cosa fare”. Come dargli torto? La band si rese immediatamente conto che il successo planetario del disco non sarebbe stato più replicabile, e che qualsiasi cosa da lì in avanti, per quanto buona, non sarebbe mai stata all’altezza di The Dark Side of the Moon. Sarà proprio questa consapevolezza a dare il la alle prime tensioni all’interno del gruppo, già dal disco successivo, Wish You Were Here, che ottenne ottimi risultati di vendite e di critica, ma non quanto Dark Side, appunto. Non a caso, Gilmour disse che durante le sessioni di registrazione del disco tutti avrebbero voluto essere in qualunque altro posto tranne che lì dov’erano. Un disagio latente pronto ad esplodere di lì a qualche anno.Nonostante tutto, The Dark Side of the Moon ha saputo regalarci (e ancora ci regala, a 50 anni di distanza, il che è tutto un dire) momenti irripetibili nella storia della musica, brividi che corrono lungo la schiena, momenti di puro godimento e di introspezione, riflessioni amare ma realistiche. Insomma, tutto quello che un disco dovrebbe dare a chi lo ascolta. Nonostante la luna sia tutta oscura, quella dei Pink Floyd continua a brillare sempre di più.

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