Intervista esclusiva con uno dei più raffinati ed emblematici jazzisti italiani di calibro internazionale in occasione del concerto romano intitolato New Heart Waltz in programma questa sera all’Alexanderplatz

di Davide Iannuzzi
Torna ad esibirsi a Roma il chitarrista e compositore Francesco Bruno per presentare la sua ultima fatica discografica ispirata all’isola greca Zante, già protagonista in molti dei principali festival internazionali di Jazz. Zàkynthos , un titolo evocativo e minimale in piena sintonia con la sua voglia di esplorare sacche geografiche e tradizioni musicali che nella melodia trovano il più solido e avvincente fondamento identitario per riequilibrare il rapporto tra contenuti basati sui valori ancestrali di un linguaggio e struttura di genere dello stesso. E a proposito di struttura il jazz, che di tradizione ne ha tanta rischia molto spesso di scivolare nel mero gesto tecnico e nell’auto celebrazione. Nella sua lunga e multiforme carriera Francesco Bruno ha sempre dimostrato di sapersi muovere agilmente tra gli stili che ha percorso mantenendo come coerenza di base l’elevata cifra melodica fatta di temi riconoscibili e micro sfumature che del suo inconfondibile stile ne determinano il sapore e il forte impatto emotivo fin dal primo ascolto, lasciando percepire che il jazz, oltre il senso della ristretta élite può comunicare con uno spettro di pubblico molto più ampio. Nello spettacolo romano di questa sera all’Alexaderplatz di via Ostia, il tempio del jazz per eccellenza della Capitale Francesco Bruno sarà accompagnato da musicisti di primissimo livello. Lo abbiamo incontrato per una chiacchierata a ruota libera tra passato e presente ma sempre in ottica prospettica. E tutto il resto a dirlo è la musica stessa.
Qual è il punto d’incontro tra la cultura mediterranea e i linguaggi del jazz?
Come ho scritto nelle note di copertina del mio ultimo lavoro Zàkynthos, Il jazz è un linguaggio che non ha confini, come il vento attraversa le culture, traendo linfa vitale dalle diversità. La nostra cultura mediterranea ha un forte legame con la melodia, elemento che ritroviamo nella storia del jazz, basti pensare alle canzoni scritte per i musical interpretate dai padri del jazz, divenute nel tempo degli standard.
In tutto questo può esistere una comune isola felice che si chiama Zante: come è nato e maturato nel tempo il tuo ultimo Zakynthos?
L’isola comune, metaforicamente indicata come Zàkynthos, è proprio il senso della mia ricerca compositiva da sempre, unire i colori caldi della mia terra a quelli di altre culture, attraverso il linguaggio universale del jazz, sentirsi parte di una comunità artistica globale senza confini geografici o ideologici, nella quale ogni diversità è fonte di arricchimento artistico nonché umano.
Dai primi anni ottanta hai costruito una solida identità di esploratore di tradizioni e avanguardie, a che punto del tuo percorso ritieni di essere giunto?
Negli ultimi dieci anni ho indirizzato le mie ricerche compositive e strumentali in una dimensione prettamente acustica, ho sentito il desiderio di ritornare ad una dimensione minimale, dopo aver prodotto per anni album ricchi anche di elettronica. Zàkynthos, realizzato in trio, è una tappa di questo nuovo percorso. Il terreno della ricerca è comunque immenso e il mio sentire è sempre quello di guardare avanti e mai indietro, dunque non saprei dirti a che punto della strada mi trovo oggi.

Le tue ultime produzioni discografiche sono caratterizzate da un jazz più intimista e tradizionale. Eppure hai realizzato album in cui è prevalsa la sperimentazione, l’elettronica e la commistione di stili. Quand’è che hai capito che il precedente capitolo produttivo avesse compiuto il suo ciclo?
Come ti dicevo prima, c’è stata da parte mia la voglia di ritrovare una dimensione minimale e acustica, in questo senso dunque più vicina alla tradizione del jazz, ma tutto questo è avvenuto in maniera molto naturale, non ho mai pensato che un ciclo fosse terminato o un altro iniziato. Credo che nei miei progetti attuali ci sia anche oggi una forte commistione di linguaggi a livello compositivo, ma espressa in una forma diversa rispetto al passato. La scelta di una dimensione acustica, con una strumentazione minimale mi ha spinto ancora di più che in passato alla ricerca sul piano compositivo.
Il tuo nome assieme a quello del tuo quartetto è una costante di molti tra i maggiori festival jazz europei. Quali sono le affinità e le differenze tra il pubblico italiano quello di altri paesi?
Il pubblico nord europeo è generalmente molto attento, vive il concerto di jazz al pari di uno di musica classica, qui in Italia non sempre le cose vanno così, in Polonia ad esempio, dove ho avuto modo di suonare spesso, ho riscontrato un livello di attenzione e rispetto veramente alto.
Il mondo discografico in generale vive ormai da tempo una lenta transizione nelle abitudini di consumo spostandosi sempre più verso le piattaforme streaming. Che opportunità e che limiti comporta questa metamorfosi nel panorama jazz?
La transizione alla quale fai riferimento ha coinvolto non solo il mondo musicale, ma tutto il pianeta. Parlando di musica, l’opportunità di fruirne gratuitamente sulle piattaforme digitali, se da una parte ha aperto ad una maggiore conoscenza e offerto visibilità a tutti, dall’altra ha distrutto il mercato discografico e tutto il suo indotto, rendendo sempre più difficile, soprattutto per le nuove generazioni, fare della musica un lavoro reale. Questo è avvenuto trasferendo enormi profitti nelle mani di pochi e cosa ancor più grave, facendo passare il concetto che la qualità in fondo può anche non esserci, l’importante è fare numeri, ma ci siamo mai fermati a pensare a chi servono questi numeri? Il jazz da sempre vive degli spettacoli dal vivo e dunque, pur non essendo esente da questa profonda crisi, spero possa trovare un punto di forza in questo.
Parliamo del tuo show; oltre i pezzi di Zakynthos cos’altro prevede la scaletta?
Ci sono brani tratti da album passati che oggi rivivono in questa nuova dimensione, è gratificante per me vedere come alcune composizioni scritte molti anni fa possano emozionare oggi un pubblico anche di più giovani, che non le ha mai ascoltate nella veste originaria.

Puoi presentarci i musicisti che ti accompagnano?
Pierpaolo Principato al pianoforte è il collaboratore di più vecchia data, una vita passata insieme sul palco, con centinaia di concerti e in studio con tanti progetti, un grande musicista, che ha da sempre impreziosito i miei progetti con la sua bravura e sensibilità.
Andrea Colella, al contrabbasso, con quale collaboro da qualche anno e che ha registrato con me anche i miei ultimi album Onirotree e Zàkynthos, Andrea ha un’ energia incredibile dal vivo e un gran suono, doti che mi hanno catturato subito dal primo incontro.
Giorgio Raponi, alla batteria, una vera rivelazione per me che lo conoscevo da anni in altri ambiti musicali e che scopro oggi essere diventato un grande batterista di jazz, con lo sguardo sempre attento alla ricerca e un background stilistico variegato, fondamentale per la mia musica.
Ci sarà spazio in futuro per un ritorno alla tua Stratocaster rossa e alle timbriche più marcate della fusion?
Ogni cosa ha un senso nel tempo in cui la si vive, ho sempre visto ai revival con grande tristezza, la mia filosofia è di guardare sempre avanti, facendo sempre tesoro di quello che si è vissuto. La mia Stratocaster ha fatto bene il suo lavoro in quegli anni, oggi ci sono altri strumenti, altri stimoli e altre sfide da affrontare, nulla è immobile per fortuna!
Sei stato l’autore della fortunata “Voglia’e turnà” di Teresa De Sio, quanto ha pesato realmente quell’esperienza nel tuo successivo percorso fino ad oggi?
Ho sempre detto che è stato per me un privilegio vivere quella stagione fortunata, che appare oggi così lontana nel tempo, ma che ha lasciato un grande bagaglio di esperienza che continua a vivere in forma diversa anche in quello che oggi propongo.
Ma torniamo ad oggi, ora è tempo di scaldarsi per il concerto, grazie di cuore Davide per questa chiacchierata! Vi aspetto tutti nel tempio del jazz romano l’Alexanderplatz per questo concerto che ho voluto intitolare “New Heart Waltz”(un valzer per il nuovo mondo) ce lo auguriamo proprio tutti vero?