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IL FATTO DELLA SETTIMANA

IL POTERE, PRIMA DI TUTTO

di Paolo Marra

Se qualcuno pensava a un cambio di passo in conseguenza della crisi scaturita dalla pandemia si sbagliava. Sono in atto le prime prove per la definizione di classi elitarie per l’accesso e il controllo delle risorse finanziare in ragione del “freddo calcolo” nella corsa alla monetizzazione ad ogni costo, pur che il costo preventivato implichi un beneficio per pochi. Il calcio non è estraneo a tali dinamiche e l’iniziativa scongiurata per poco di dare vita alla Superlega lo ha dimostrato.

Già da tempo l’alzamento dall’asticella di ingaggi e stipendi dei calciatori- non sempre all’altezza delle aspettative contrattuali- col seguito dello stuolo di procuratori a fare le proprie e altrui fortune, il dominio innarestabile dei diritti TV e dall’altra parte l’affermarsi in termini di potere, denaro e prestigio di una manciata di squadre arroccate sull’Olimpo a guardare le altre dividersi le briciole ha finito per alimentare un circolo vizioso, non più virtuoso, destabilizzante per l’intero sistema calcistico. Il risultato si è concretizzato nel lento snaturamento dell’identità del “gioco del pallone” incarnato nell’immaginario collettivo dal campetto di periferia, spazio comune aperto a tutti i partecipanti dove a fare la differenza sono qualità, tenacia e rispetto dell’avversario. Nulla importa se il campo in questione è quello al centro degli spalti dello stadio, a patto del mantenimento dell’accesso allo “spettacolo” più bello del mondo sulla base del merito e non del capitale.

Il patto scellerato della Superlega è solo il risultato dell’accelerazione imposta dalla pandemia all’acutizzarsi del malessere all’interno di fenomeni fuori controllo. Non si tratta di congiungere il problema unicamente alla sfera delle dinamiche celate dietro uno sport di cui possiamo essere o non essere appassionati, il nocciolo della questione implica molto di più e interessa il futuro della visione del sistema economico nel futuro post-pandemia. Il calcio, vittima dello sfrenato business nel quale il mezzo dell’indebitamento giustifica il fine della vittoria, diventa specchio della divisione sociale da ricondurre a risorse sempre meno accessibili a tutti, da difendere ad ogni “costo” per mantenere status e privilegi acquisiti.

A rincarare la dose c’è l’obiettivo esplicito del progetto Superlega di risanare lo stato dei bilanci in rosso delle società “generando ricavi”- come ha dichiarato il presidente del Real Madrid Florentino Pèrez – con la costituzione di “una classe a sé” formata da 12 Club in grado di accedere ai cospicui finanziamenti della Banca Americana JP Morgan senza un minimo di visione collettiva ed equa per salvare un intero sistema al collasso. Una prospettiva amaramente paradossale perché di fatto contestualizzata nell’ambito del calcio, sport per antonomasia simbolo di cooperazione di ruoli interdipendenti sintetizzato nel decantato “spirito di squadra”. Forse il torneo per solo ricchi avrebbe trovato meno resistenza senza lo spettro del virus a dettare aperture e chiusure, ad accentuare perdite economiche preesistenti e nevrosi sociale ma proprio per questo ci si dovrebbe interrogare sulla tempistica di tale decisione talmente errata da non essere casuale nel voler mettere in chiaro le politiche dei poteri forti del calcio per i prossimi anni.

La marcia indietro da parte dei 12 Club capitana dalle squadre della Premier League dopo l’indignazione bipartisan col Primo Ministro Inglese Boris Johnson sul piede di guerra, pronto a tutto pur di fermare il torneo della vergogna, sembra presagire l’inevitabile rinvio in attesa, da parte dei diretti interessati, di tempi più favorevoli Una probabilità da scongiurare col cambiamento radicale in seno alla macchina calcistica non più in sintonia col livellamento verso il basso della situazione economica attuale nella quale l’idea di esclusività e accesso selezionato diventa insulto al senso di solidarietà essenziale per superare la crisi mondiale dovuta alla pandemia. Se l’obiettivo è quello di avvicinare il pubblico più giovane, disabituato al contatto diretto col campo di gioco, alle competizioni calcistiche questa non è di certo la strada da intraprendere. Meglio sarebbe in tal senso restituire al calcio l’identità perduta attraverso l’appartenenza genuina al valore della maglia e non al livello di ricchezza che essa rappresenta.

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