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TONINO VALERII, IL SUO NOME È QUALCUNO

A tre anni dalla scomparsa, per non dimenticare il suo Cinema evergreen

di Davide Conti

Il 16 ottobre di tre anni fa ci lasciava Tonino Valerii. Nato in provincia di Teramo nel 1934, viene ricordato soprattuto per le sue collaborazioni con Sergio Leone come assistente alla regia nei film “Per un pugno di dollari” (non accreditato) e “Per qualche dollaro in più” e per la regia del bellissimo western crepuscolare “Il mio nome è Nessuno”, prodotto da Sergio Leone, scritto da Ernesto Gastaldi e interpretato da Terence Hill e Henry Fonda. Tuttavia la fama di questo film è legata soprattutto alla vision leoniana che permea l’intera pellicola, al punto da essere ricordato più come un film di Leone che di Valerii, e forse non a torto.

Ecco perché, parlando di Tonino Valerii, preferisco ricordare altri suoi lavori, probabilmente meno noti, ma sicuramente più emblematici nel descrivere lo stile lucido, fermo e bilanciato che questo grande artigiano del cinema ha mostrato in più di trent’anni di carriera.

Il primo di questi è “Per il gusto di uccidere”, suo esordio alla regia. Da subito Valerii evidenzia una certa abilità nel dare sviluppo a una storia complessa, con un protagonista cinico, non proprio simpatico con il quale il pubblico non empatizza immediatamente, nonostante fin dall’inizio venga messo al corrente del suo progetto di vendetta, espediente narrativo spesso usato nel western italiano come colpo di scena. Ma questa difficoltà ad empatizzare con i personaggi non è attribuibile a difetti di scrittura: il film infatti risulta ben scritto, con tempi distribuiti bene e con un ritmo che, a distanza di più di cinquant’anni non perde un colpo. Non si riconduce nemmeno a difetti di recitazione: tutti gli attori, infatti, tratteggiano molto bene i loro ruoli, a cominciare dal protagonista, un bravissimo Craig Hill. Il film funziona proprio perché cinicamente prende le giuste distanze, sia dai canoni dello spaghetti western, sia da quell’eredità ancora pesante da cui liberarsi, lo stile del western made in USA. Non a caso, forse, la storia comincia col protagonista che cavalca al tramonto e si conclude con una cavalcata in piena luce diurna, ribaltando completamente i modelli stilistici di un western “vecchio”, quello che sarà poi liricamente cantato e celebrato ne “Il mio nome è Nessuno”. Con questo gioco di “ribaltamenti” Valerii fa le prove generali per il film di gran successo che avrebbe girato l’anno successivo, “I giorni dell’ira”, con Lee Van Cleef e Giuliano Gemma.

L’anno prima di dirigere “Il mio nome è Nessuno” il celebre film con Terence Hill, nel 1972 Valerii ci regala ben due film importanti per la sua carriera: “Una ragione per vivere, una per morire” e “Mio caro assassino”.

Il primo di questi riprende lo schema già collaudato da “The Dirty Dozen” di Aldrich, con un manipolo di avanzi di galera (e in quanto tali sacrificabili) che vengono reclutati per compiere una missione suicida, catapultando, però, la storia dalla Seconda Guerra Mondiale a una ambientazione western. In realtà l’idea non è del tutto nuova. Era già stata sfruttata in altre pellicole come “Oggi a me… domani a te” di Tonino Cervi, del 1968, e “Un esercito di 5 uomini” di Italo Zingarelli del 1969, entrambi scritti da Dario Argento. Sempre nel ’68 anche Enzo G. Castellari dirige un pazzesco “Ammazzali tutti e torna solo”, a riprova del fatto che lo schema narrativo di Aldrich aveva trovato nel western italiano un contesto davvero ottimale. In più, sia il film di Cervi che quello di Valerii del ’72 contenevano una sottotrama molto cara al genere: quella della vendetta. Ma il film di Valerii finì per distinguersi rispetto alle altre pellicole. Innanzitutto i personaggi: non più figure tratteggiate e sbrigativamente caratterizzate per offrire al pubblico un ventaglio multiforme di facce e abilità diverse, ma persone, dotate di uno spessore umano, cosa piuttosto rara nel genere. Il protagonista, ad esempio, interpretato da un ruvido James Coburn, trascina con sé non solo la sete di vendetta e l’abilità strategica (gli elementi narrativi che delineano il perché e il come dell’azione) ma anche il peso di un’umiliazione passata, il dolore del disonore subito e al tempo stesso la dignità e l’orgoglio di chi sa già come riabilitare il suo onore e come rimettere in pareggio i conti. Che non pareggeranno mai, nonostante la vendetta che si consumerà ai danni di un viscido e superlativo Telly Savalas. Ad alleggerire il tono dolente del film un simpatico e per niente fuori luogo Bud Spencer, talmente in parte da mangiarsi con eleganza la scena, ma mai al punto da mettere in ombra le vere colonne dorsali della vicenda. Particolare interessante, il bravo attore napoletano è nel cast anche di due dei tre altri film poc’anzi ricordati, quelli scritti da Dario Argento. A tenere saldi tutti gli ingranaggi, la bella sceneggiatura di Gastaldi e di Azcona, stretto collaboratore di Marco Ferreri.

Ma sempre nel 1972 Valerii ci regala un’altra opera importante nel cinema di genere, il thriller “Mio caro assassino”, con un misuratissimo George Hilton. Un film coraggioso, cupo, tristissimo e a tratti spiazzante. Anticipa tematiche dolorose, le affronta quasi con ingenua disinvoltura, ma mai con leggerezza. Nel guardare questo film si ha quasi la sensazione che l’autore cammini imprudentemente in un campo minato, pronto a saltare in aria da un momento all’altro. E invece, passo dopo passo, Valerii ci conduce fino alla conclusione spudoratamente agatha-christieana, come a voler regalare al pubblico un banale momento da cliché, di quelli che piacciono tanto agli spettatori di bocca buona. Ma può farlo, perché per 105 minuti ha danzato bendato tra le mine con la sicurezza di chi sa perfettamente cosa fare e come farlo. Di chi forse non ha mai aspirato a diventare grande, perché era troppo occupato a fare mostruosamente bene il suo lavoro.

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