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“REDEMPTION”, TUTTO IL WESTERN IN UN CORTO

Premiato a Los Angeles all’Indipendents Shorts Awards il nuovo corto di Emiliano Ferrera rilancia il western della tradizione e del futuribile

di Davide Conti

Sto per fare una cosa che non va fatta. So già che andrò contro ogni regola e logica editoriale. Non me ne voglia la redazione di Mediafrequenza: stavolta è così. Sto scrivendo un articolo che sarà lungo, vi avverto. Parlerò di un film. Parlerò molto di questo film.

Esattamente, vi starete chiedendo, quale sarebbe la logica che sto mandando a farsi benedire? Questa: il seguente articolo sarà lungo. Vergognosamente più lungo del film stesso, che di fatto è un cortometraggio di 20 minuti. Ma su Redemption ho davvero un sacco di cose da dire, perciò mettetevi l’anima in pace perché (vi avverto) non farò nessuno sforzo per essere sintetico!

Il film è un western ambientato in Oklahoma, ma io vi porto prima da un’altra parte. Precisamente sul letto del fiume Sacramento, in California. Siamo su un battello, di quelli a pale rotanti, bello, elegante, con poltrone imbottite di velluto e tavoli da gioco all’interno. Su uno di questi tavoli è seduto Gregory Peck. È un giocatore professionista e ha l’aria sicura di sé. Ha forse la vittoria in pugno? Non lo sapremo, perché dalla sala accanto giunge una voce, una melodia e il buon Gregory abbandona il tavolo per seguire questa voce. Entra in una sala, con tante persone sedute di fronte a un palco. Su quel palco una bellissima Debbye Reynolds sta cantando davanti a un pubblico attento e rapito dalla sua splendida voce. I due si sono ritrovati dopo tante avventure e finalmente insieme (innamorati) partiranno verso una nuova vita a San Francisco. Sono due dei molti personaggi presenti nel film How the West was won, distribuito in Italia col titolo La conquista del West, un’epopea western collettiva, diretta da molti registi, tra i quali John Ford e Henry Hathaway.

Il canto che era giunto agli orecchi di Gregory Peck era sulle note del Greensleaves, un’antica ballata popolare in sei ottavi, attribuita, si dice, a Enrico VIII e composta per Anna Bolena, la dama dalle lunghe “maniche verdi”, le greensleaves appunto. Ma il testo che echeggia nella sala dello showboat è diverso. Non recita:

Greensleeves was all my joy

Greensleeves was my delight,

Greensleeves was my heart of joy

Greensleeves was my heart of gold

And who but my lady Greensleeves…

La dolce Debbye, su quel palco, sta cantando qualcosa di diverso, un testo appositamente modificato da Sammy Cahn per questa scena. Cahn, per intenderci, è l’autore di un botto di canzoni famose, da Time after time a Let it Snow, let it Snow, let it Snow! Per la scena in questione, Cahn compose questi versi:

Come, Come

There’s a wondrous land

For the hopeful heart, for the willing hand

Come, ComeThere’s a wondrous land

Where I’ll build you a home in the meadow.

Terre meravigliose, case nei prati, cuori speranzosi e mani volenterose. Quanta speranza in queste parole. Era il 1962. Il film fu un successo.

Ma nel 1962 Susan, la protagonista del film Redemption di Emiliano Ferrera, non era ancora nata. Non poteva conoscere questa versione del canto, fatta di speranze e prati verdi. Eppure le parole del suo Greensleaves, quello che Nora Luis ci canta sono proprio QUESTE, il testo di un film dove il West è sì una terra insidiosa, ma soprattutto l’emblema della speranza, del sogno, della conquista.

Tutto questo in Redemption non c’è.

Siamo in apertura del film e quel che vediamo non sono prati verdi, ma uno spettrale contorno montuoso in un bianco e nero che sembra lasciare poco spazio alla speranza, mentre una didascalia ci ricorda che l’Oklahoma era “un paradiso per uomini e cani, ma un inferno per le donne”. Già dai primissimi secondi il regista definisce subito il registro e il tono lugubre di questo film, ancor prima dell’entrata in scena del primo personaggio, Jones, un Valerio Rota Vega in campo lunghissimo, esattamente al centro dell’inquadratura. Un personaggio che ribalterà più volte la percezione che il pubblico avrà di lui. Ed è proprio questa probabilmente l’idea che fa da colonna dorsale al film: un gioco di ribaltamenti, narrativi e concettuali. Perché Redemption è un luogo dove non c’è redenzione, perché lo straniero che arriva con abiti eleganti, bombetta, modi gentili e soccorrevoli (ma neanche troppo) e la faccia da buono, forse buono non è. Ma alla fine forse sì, anche se… Perché Wales, il personaggio interpretato da Ferrera stesso, che appare come l’angelo salvatore in soccorso di chi è più debole, forse non ha alcun proposito di salvezza. Perché Chumani, la donna indiana debole, remissiva, sottomessa, vittima silenziosa della tirannia maschile, alla fine, forse debole non è. Perché Susan, che nella disperazione trova un impeto di coraggio dove tutti abbassano la testa, forse è un criminale, o forse una vittima…

Questo è Redemption: una giostra di ribaltamenti, senza però che le cose possano mai volgere in meglio. Come un barile di whisky che rotola giù per un pendio: continua a ribaltarsi, certo, ma solo perché destinato a schiantarsi. Giostra di ribaltamenti e annullamento di ogni certezza. Tranne una: Black Jack, lui è il male, dall’inizio alla fine. Senza giostre. Tra l’altro, quanto ci mancano oggi, nel nostro cinema, facce come quella di Mauro De Vecchi, talmente magnetico e agghiacciante da far paura perfino dal wanted stampato eappiccicato sul tronco di un albero, come appare per la prima volta – nel film lo vedrete pochissimo, ma provate a dimenticarvelo, e vedete se ci riuscite.

C’è tanto in questo film: c’è materiale per un’epopea western, ma ruvida, gelida, grigia e lugubre. Una specie di Sottosopra alla Stranger Things rispetto alle verdi praterie de La conquista del West. C’è un villaggio di poveri cittadini indifesi tenuti in pugno da una banda di criminali. Ma chi lo dice che i poveri cittadini siano davvero così buoni? C’è una storia di donne con dei drammi alle spalle, che si adattano a un ambiente ostile e che cercano la forza di reagire – ma siamo in Redemption, non c’è posto per la speranza. Ci sono cacciatori di taglie spietati con tracce di umanità e rappresentanti della legge che dell’approccio umano ne fanno una maschera per celare una freddezza spietata. C’è la Legge e il Fuorilegge, entrambi insensibili e al servizio di nessuno, se non di se stessi. Ci sono bambini che accolgono i forestieri simulando dei colpi di pistola (e letteralmente pisciano sull’unica traccia di “redenzione” presente nel film) e morti che ti danno il benvenuto in piedi. E poi le tragedie dei nativi indiani, il legame con la terra, locandieri papponi e medici alcolizzati. C’è davvero tanto in questo film.

Manca solo una cosa.

Il tempo per sviluppare tutti gli elementi presenti nel film. Perché Redemption è, deve essere, è costretto ad essere un cortometraggio di venti minuti. Non un secondo di più.

Qui la scelta difficile: cosa togliere?

Qui l’idea secondo me intelligentissima: non togliamo niente. Lasciamo tutto. E di quel tutto lasciamo un po’, gli elementi necessari per dimostrare che qui c’è gente che il suo mestiere lo sa fare, con l’umiltà di chi sa lavorare con pochi mezzi ma al tempo stesso con la consapevolezza di chi, in quel poco, ci mette il massimo. Così, in una produzione “povera” non troverete niente di dozzinale. Tutto è curato nel dettaglio.

I bellissimi costumi di Laura De Navasques rivelano una cura dei particolari che, a loro volta, sembrano raccontare delle storie: le sciabole incrociate sul cappello da fanteria di Black Jack ci rivelano la sua origine da ufficiale dell’Unione, che pur avendo avuto la meglio sui Confederati in una guerra sanguinosa, in cui probabilmente ha perso un occhio, il sangue e la sua anima, si sarà visto negare gli onori auspicati e, come tanti reduci dell’epoca, si è dato al brigantaggio. Due sciabole a raccontare un “non detto” che fa da sfondo alla nostra storia. O anche la scelta di far indossare al cacciatore di taglie una bombetta, inusuale dal punto di vista cinematografico ma storicamente attendibile, come potete verificare su questo vecchio articolo a cui vi rimando:

https://news.google.com/newspapers?nid=336&dat=19571026&id=xQQpAAAAIBAJ&sjid=PkgDAAAAIBAJ&pg=7036,5636283

Che dire della fotografia? La scelta del bianco e nero potrebbe evocare un’atmosfera vicina al Dead Man di Jim Jarmush ma poi, di fatto, sembra più una soluzione narrativa che estetica, perché qui non c’è posto per i colori. Sparisce l’ocra dei paesaggi e l’azzurro del cielo di tanto cinema spaghetti western, coloratissimo e solare. Qui perfino i toni crepuscolari si fanno gelidi. E comunque, la fotografia efficace di Barberi non è solo il bianco e nero, è nelle luci ben bilanciate, che non fanno percepire gli stacchi tra interni ed esterni, nelle inquadrature, studiate nel dettaglio (e qui si percepisce anche il retaggio e la formazione del regista).

Il makeup è di Anita Tafra e funziona, il montaggio di Roberto Mencherini ha i tempi giusti.

Le musiche: Giordano realizza qualcosa che meriterebbe uno studio a parte. Non cade nella trappola della facile partitura italico-western, fatta di armonie semplici, arrangiamenti essenziali e tanti suoni evocativi. Con questi elementi puoi realizzare dei capolavori solo se ti chiami Morricone o Bukalov, o al massimo puoi fare della musica discreta, come fecero tanti altri maestri degli anni 60-70. Ma non si è fatto nemmeno lasciato intrigare da un’altrettanto scontata soluzione rock, alla Neil Young. Giordano tira fuori dal cilindro una partitura pazzesca, senza tempo, potente ma mai invasiva, protagonista ma mai invadente, avvolgente ma non di quelle che canticchierai alla fine del film, perché al momento giusto (e per l’esattezza in tre momenti cruciali del film: in apertura, in climax e in chiusura) si fa addirittura da parte, lasciando il campo alla bellissima voce di Nora che sola, senza accompagnamento, canta il suo Greensleaves apocrifo, come apocrifo è il mondo senza speranza raccontato nel film.

Già, Nora Luis. Il personaggio più drammatico è proprio il suo, quella Susan che alterna, con la delicatezza di una danza in tre tempi (o in sei ottavi, come quel Greensleaves che non vi toglierete più dalla testa per giorni), dolore, speranza e rassegnazione. Brava, rimane nelle misure, non deraglia mai, cosa difficilissima, considerando il personaggio. E poi, ha una bellissima voce e non mi riferisco solo al canto. Quel fuori campo vi resterà dentro, come il momento in cui Susan racconta del suo passato. Vi assicuro che non sarà solo quella storia drammatica a fissarsi, ma proprio quelle tonalità di voce che renderanno questa giovane attrice una promessa.

Insomma, un gruppo di professionisti che tutti insieme decidono di dare il meglio, anche se per un lavoro “piccolo”, e lo fanno creando un mondo, un’epopea lasciata fuori dal perimetro di quei 20 minuti, ma che allo spettatore arriva forte, prepotentemente. È forse un caso che Redemption è stato premiato a Los Angeles all’INDIPENDENT SHORTS AWARDS?

Ve l’avevo detto che non sarebbe stato un articolo breve. Perché Redemption è un film tutt’altro che breve, fatto di fango e morte. Prati verdi e speranza? Queste cose appartengono a un altro mondo, possono solo essere cantati, come si canterebbe una ninna nanna, non di quelle per far addormentare un bambino, ma di quelle da cantare a se stessi, un’ultimo disperato richiamo della spensierata fanciullezza, prima che la vita ti consegni al tuo tragico destino.

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