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“ORO & PIOMBO”, E L’INTRAMONTABILE WESTERN ALL’ITALIANA FIORISCE ANCORA

Presentato alla 38° edizione del Valdarno Cinema Film Western “ORO & PIOMBO”, il film di Emiliano Ferrera tra mappe, tesori, il mattatore Greg e la centralità della donna

di Davide Conti

Nel 1956 un ispirato Renato Carosone cantò “Tu vuò fà l’americano”. Era l’Italia del Dopoguerra sedotta da quel mondo avanguardistico, vincente, giovane che erano gli USA.

Quei versi in boogie-woogie partenopeo raccontano molto dell’Italia di quel decennio e di buona parte dei successivi, laddove il fulcro, l’idea e la diagnosi oserei dire sociologica presente in quel testo era di un paese che non ambisce a essere americano perché sa che non può. Non ne ha la storia, la musica, la lingua, la tradizione, la forza economica e militare. L’italiano di quel particolare periodo storico si appaga all’idea di voler “fà l’americano”, è il piccolo che sa di non essere grande ma si diverte da matto a imitare, emulare, a giocare, a far finta di essere.

L’evoluzione dei costumi di quel periodo è tutta pervasa da un senso ludico dell’emulazione. Così qualche anno dopo un giovane Antonio Ciacci si fa crescere il ciuffo alla Elvis Presley, ne imita le movenze e si fa chiamare Little Tony, vendendo milioni di dischi grazie a canzoni molto simili al rock and roll ma sempre ancorati a un’impalcatura musicale di matrice melodico tradizionale. E così i vari Bobby Solo, Rita Pavone. Erano gli anni dei colossal di cartapesta, spesso girati con due lire, ma imbellettati come produzioni hollywoodiane. Così, quando negli anni ’60 un gruppo di artigiani del cinema decise di girare dei film western, sulla carta l’idea era bizzarra, strampalata (e così inizialmente fu percepita negli Stati Uniti), ma aveva perfettamente senso in quel contesto culturale emulativo, quello di un italiano che “vuò fà l’americano”. Gli addetti ai lavori d’Oltreoceano non potevano capire questo fermento creativo. Gli stessi attori americani più tardi coinvolti nel progetto rimanevano perplessi di fronte a questo fenomeno (film western italiani?), come di recente ha ricordato Quentin Tarantino nel suo “C’era una volta a… Hollywood”. Comunque, per i cineasti dell’epoca questo storcere il naso non era un problema. Si giocava a fare gli americani, era divertente e si facevano un sacco di soldi. Si giocava con la musica, le canzoni, i costumi, il cinema. Quindi, perché non fare film western?

Se ne produssero diversi. Ma fu con Sergio Leone che il genere assunse dei connotati speciali. Altri registi contribuirono a conferire al genere uno stile, un tono che, pur poggiando su una base iniziale ludica ed emulativa che era l’immaginario scenico della Frontiera, se ne discostava restituendo ai prodotti filmici un’impronta stilistica tutta italiana. Le ambientazioni americane diventavano il pretesto per confezionare prodotti pervasi da umorismo nostrano, con una diversa concezione dei tempi cinematografici, un senso del lugubre e del liturgico che affonda le sue radici nel più rurale retaggio cattolico. Era un prodotto che al botteghino funzionava alla grande: tanto italianismo travestito da USA. Funzionava col cinema come con la musica. I molti registi che si lanciarono sul treno in corsa non avevano velleità autoriali. Il cinema d’autore era altra roba, era il neorealismo, era Visconti, era Antonioni.

Nello spaghetti western non si andava con l’intento di fare arte ma artigianato, farsi le ossa con lo strumento cinema, con la macchina da presa, la fotografia, il montaggio, era l’ambiente dove musicisti potevano ampliare il loro repertorio, scoprire nuove sonorità. Era un’incubatrice di professionisti che avrebbero fatto tesoro dell’esperienza tecnica del western per metterla a frutto in seguito in altre direzioni (il thriller, la commedia, l’horror, il dramma familiare, il cinema erotico). Pochi di quei registi avevano in testa un percorso autoriale alto. Sergio Leone fu sicuramente il più importante di questi. Ma fu soprattutto grazie ai tanti altri artigiani che il genere western italiano ci consegnò prodotti sorprendenti, innovativi, visionari, potenti, netti. Inconsapevolmente quei pionieri definivano degli stilemi che in seguito avrebbero ribaltato le parti nel rapporto didàskalosmathetés, finendo per essere studiati, ammirati e perfino imitati da registi e autori statunitensi e non solo.

Tutto questo per chiederci: aveva senso negli anni 60-70 girare film western italiani? Assolutamente sì.

Tutto questo per chiederci: ha senso oggi, nel 2020, a un passo dal 2021, fare un film come “Oro & Piombo” di Emiliano Ferrera?

Fare cinema western oggi ha un significato diverso, perché parte da motivazioni diverse. Se lo spaghetti western era l’imitazione del genere statunitense per eccellenza, fare western oggi significa misurarsi con un prodotto derivato e divenuto genere e modello a sua volta. Una volta era cinema di innovazione, oggi è cinema di evocazione, celebrativo. In quest’ottica il film di Ferrera può definirsi un’opera fondamentalmente riuscita.

Parte da un soggetto complesso, articolato, cosa spesso insolita nel prodotto medio del western italiano. Un soggetto in cui appare subito evidente che le sue potenzialità sono superiori allo sforzo produttivo e alle risorse finanziarie messe in campo. Se questo in parte si percepisce nello sviluppo dell’intreccio, dall’altra non porta mai fuori binario il film, quasi mai. C’è una mappa, quindi ci deve essere un tesoro – in questo caso una miniera, ci sono dei dubbi sull’attendibilità della mappa, ci sono personaggi di cui sono sono chiare le intenzioni, c’è un dottore che la sa lunga, un prete con una pistola nascosta nel breviario (interpretato da un divertito e divertente Claudio Gregori, in arte Greg), una prostituta, anzi tre, un sempliciotto buono di cuore, un pistolero misterioso, una donna con un passato tutto da scoprire. Insomma, tanti elementi che potenzialmente sarebbero stati sufficienti a mettere in piedi un’epopea (se si pensa che Sergio Leone ha confezionato il suo “C’era una volta il West” con molti meno ingredienti). È chiaro quindi che le intenzioni si muovevano su una marcia a cui non poteva certo corrispondere il budget messo a disposizione, ma questo non ha impedito a Ferrera di ottenere un prodotto efficace.

Il western italiano medio, quindi non quello dei capolavori ma quello delle centinaia di piccoli film che hanno reso grande il genere, è un cinema per lo più situazionale, composto da piccoli quadri scenici, piccole unità narrative tenute insieme, ma neanche sempre, da un sottile filo conduttore – e collegate spesso da lunghe cavalcate magistralmente musicate da bravissimi compositori. Questo c’era in quei film, momenti di pura invenzione scenica. In quest’ottica, il film di Ferrera ha centrato in pieno l’obiettivo, è un film appunto situazionale, più antologico che citazionista – sebbene le citazioni non manchino. È un’antologia di momenti tipici del nostro cinema western, di facce, di suoni, di sguardi. È un’operazione nostalgica ma al punto giusto.

Sull’intreccio, se ci fosse stata una maggiore disponibilità finanziaria probabilmente i tanti elementi messi in pentola sarebbero meglio pervenuti a cottura perché distribuiti e spalmati su una sceneggiatura più estesa. Poco importa. Diceva Jim Gordon ne “Il cavaliere oscuro” di Nolan: «Faccio il meglio che posso con quello che ho», e ho voluto citarlo non perché Commissario Gordon è anche il nome del mio gatto ma perché per molto tempo lo spaghetti western è stato il nostro cinema supereroistico, fatto di personaggi bidimensionali, fumettistici, che maneggiavano la Colt come fosse un superpotere, divenuti col tempo maschere (Sartana, Django, Ringo). Anche in questo caso il pistolero misterioso, “l’uomo senza nome” è evocato dal personaggio dell’irlandese con l’ingenuità di un bambino che parla del suo eroe dei fumetti preferito, e quando entra in scena non ci mostra mai completamente il suo volto, appunto come Batman.

Un altro punto a favore del film di Ferrera è la centralità della donna, cosa abbastanza rara in quel nostro cinema maschile e testosteronico. Clare Peralta è un personaggio magnetico, ben tratteggiato. In questo, notevole l’apporto di una strepitosa Yassmin Pucci, di una bellezza ruvida, bravissima, perfettamente a suo agio in scena e capace di comunicare sentimenti profondi, diversissimi tra loro, con minimi movimenti del viso e gestualità misurate. Con quel cappello a lambire la linea degli occhi, le guance sporche di polvere e la cicatrice sul labbro, il suo è un volto che rimarrà impresso a lungo.

Quanto all’omaggio a Sergio Leone, più che nelle didascalie finali è nel personaggio dell’uomo senza nome che Emiliano Ferrera opera una bellissima ricostruzione mimica, gestuale, posturale del personaggio di Clint Eastwood. Non è passato inosservato il modo in cui solleva il nastro rosso, la forma della mano, la lentezza con cui lo alza: abbiamo rivisto tutti la mano di Clint che ribalta le sorti di un drammatico duello col carillon di Lee Van Cleef.

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