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ALLA SCOPERTA DEL BATTISTI NASCOSTO

di Fabrizio Ragonese

Quali canzoni vi vengono in mente quando pensate a Lucio Battisti? La canzone del sole? Emozioni? Acqua azzurra, acqua chiara? Se non sono queste saranno altre più o meno dello stesso periodo, sono pronto a scommetterci. Ma forse vi sorprenderà sapere che non è così che Lucio avrebbe voluto essere identificato. Non amava gli schemi preconcetti, e ancora meno se questi schemi venivano applicati a lui. Non è necessario entrare nella sua mente per capirlo. Basta scorrere velocemente le dichiarazioni rilasciate nel corso degli anni. Una delle più emblematiche ad esempio, è questa: «Un artista non può camminare dietro il suo pubblico, un artista deve camminare davanti.» Come dargli torto? Da sempre allergico alle imposizioni, il buon Lucio ha impostato tutta la sua carriera come un continuo processo di rinnovamento e sperimentazione, intesi come strumenti di crescita artistica strettamente personale, mai finalizzati ad incontrare i gusti del pubblico, piuttosto per far sì che il pubblico incontrasse i suoi. Camminare davanti al pubblico, appunto, non dietro. A ulteriore riprova che questa fosse la filosofia trainante dell’intera carriera del cantante di Poggio Bustone, prendetevi il tempo di ascoltare non solo i dischi che sono entrati nell’immaginario collettivo, ma anche e soprattutto quelli meno conosciuti. Se lo farete, vi renderete conto di come Lucio non abbia mai perso occasione di sganciarsi dal suo stile “classico” ogni volta che ne ha avuto l’occasione. E questo è qualcosa che si palesa fin dagli esordi: il primo album interamente composto di inediti (i precedenti erano infatti delle semplici raccolte di canzoni già pubblicate su singolo o scritte per altri artisti) è Amore e non amore, primo album “di rottura” con lo stile battistiano, caratterizzato da sonorità assolutamente non convenzionali e non in linea con il percorso artistico di Battisti fino a quel momento. Tant’è vero che la Ricordi lo giudicò un album troppo sperimentale, prevedendo che nessuna di quelle canzoni sarebbe diventata un successo (come infatti è stato), e chiuse questo album in cantina per ben otto mesi prima di decidersi finalmente a pubblicarlo.

La cosa suscitò grande irritazione da parte dello stesso Battisti, che aveva concepito il disco proprio come un concept album d’avanguardia, e temeva pertanto che ritardando la pubblicazione il disco potesse risultare già “superato”. Saranno episodi come questo a spingerlo ad allontanarsi definitivamente dalla Ricordi e dal mercato discografico in generale. Negli anni seguenti si registreranno ulteriori esempi di “rottura” stilistica, come ad esempio la psichedelica Il Fuoco contenuta nell’album Umanamente Uomo: il sogno, o le atmosfere tribali de La Canzone della Terra, proveniente da Il nostro caro angelo. Il successivo esempio di “rottura” è quello, a mio avviso, che merita maggiore attenzione e quello su cui voglio soffermarmi in questo articolo: Anima Latina. L’ispirazione per questo disco nasce da un lungo viaggio compiuto da Battisti fra Argentina e Brasile nel ‘74, al ritorno dal quale Battisti inizia la registrazione dell’album che durerà circa sei mesi. Inizialmente questo disco doveva essere abbastanza in linea con il suo stile, un album “battistiano”, per così dire. All’improvviso, però, Battisti ci ripensa e cambia tutto, ricominciando a registrare tutto daccapo. Le scelte che opera sono assolutamente senza precedenti: ansioso di sganciarsi dalle catene della strofa e della rima, Battisti attinge a piene mani dalla libertà metrica e compositiva che gli offriva il progressive, aggiungendo però elementi della musica brasiliana, non solo negli arrangiamenti, ma adottandone l’essenza stessa, cioè musica come partecipazione, come convivialità, come gioia di stare insieme. I testi trattano le varie sfaccettature della sessualità, viste dalle prospettive di un uomo e una donna, talvolta bambini, talvolta adulti, il tutto immerso in un paesaggio di degrado urbano che cerca di ritrovare il contatto autentico con la natura. Non cercate di etichettare questo disco sotto un preciso genere: non ci riuscirete. Questo è un prog latino sperimentale che non sentirete da nessuna parte. Se lo scopo di questo disco era demitizzare il personaggio di Lucio Battisti, di scrollarsi di dosso l’immagine cantautoriale che lo identificava fino a quel momento, possiamo dire che l’operazione è perfettamente riuscita. E poteva riuscirci solo lui. Il perché di questa sua scelta così drastica è lui stesso a spiegarla:

«Questo mio ultimo LP, “Anima Latina”, è per me un’operazione culturale, quasi un esperimento, e tale dovrà restare».

Già. Un esperimento. Ma quale? 

«Quando uno parla in mezzo agli altri, non urla ma non tace neppure, se la sua voce interessa a chi ascolta, viene individuata in mezzo alle altre, magari con un po’ più di attenzione, con un po’ di fatica. Questo ho fatto con il mio LP: ho messo la mia voce in mezzo alla mia musica ed ho inteso stimolare gli altri a capire le parole, ad afferrare il senso o la sola sonorità; ho inteso stimolare chi mi ascolta a fare attenzione a ciò che sta succedendo, a ciò che accade nel momento in cui si ascolta un brano non perché questo sia piacevole, ma perché ascoltare significa qualcosa: e ascoltare con attenzione, magari rimettendo il disco daccapo perché non si è capito, magari facendo irritare chi non è riuscito ad individuare al primo ascolto una parola, è un’operazione stimolante, coinvolgente; è il modo che ho scelto per comunicare con gli altri, per essere presente in mezzo agli altri, per essere quello che dà il pretesto, lo spunto ad un’azione, ad un’operazione.»

Tutto chiaro, quindi. Niente più ascolti facili, niente melodie dirette, niente musica fatta per il gusto di intrattenere. Al contrario, arrangiamenti stratificati e complessi, testi ermetici talvolta cantati con voce soffusa, cambi di ritmo con uso occasionale di tempi dispari, tipici del prog, che all’epoca viveva il suo momento di massimo splendore. Musica intesa come interazione con l’ascoltatore, come stimolo intellettuale, per testare la sua voglia di scoprire, di capire, di andare fino in fondo. L’ascoltatore non è più un soggetto passivo, ma viene coinvolto attivamente nell’ascolto come mai nessuno aveva osato fare prima. Lo si capisce fin dalla traccia di apertura, l’esoterica Abbracciala, abbracciali, abbracciati: la voce di Battisti è iperriverberata, aerea, celestiale, tanto da rendere quasi impossibile la percezione delle parole in alcuni passaggi (quello che stavamo dicendo prima, appunto): oggettivamente, ditemi se avete mai sentito Battisti cantare così. Un ottimo preludio che stimola l’appetito per le tracce seguenti. Due mondi dà il la alle atmosfere latineggianti dell’album, con un ritmo incalzante e il perfetto dualismo tra le voci di Lucio e di Mara Cubeddu dei Flora Fauna Cemento che descrive le contrapposizioni e i contrasti tipici dell’antagonismo tra i due sessi. Musicalmente, il brano è eccezionale: il suono cavernoso dell’introduzione è prodotto dalla chitarra di Battisti coperta da un effetto molto avveniristico per l’epoca (l’EMS Synthi Hi Fli – VEMIA 3 per la precisione) che stride con la delicata interpretazione vocale di Lucio e Mara Cubeddu. Il pezzo poi si sviluppa in un crescendo strumentale sempre più intenso e sofisticato, fino a raggiungere il culmine nel finale, con un trionfo di sintetizzatori, voci liriche, e uno strimpellio curiosamente prodotto da una cetra di plastica per bambini. Interessante anche la ripresa, con solo pianoforte e voce, che riporta l’ascoltatore verso sentieri più battistiani, e che danno un’idea di come doveva essere l’album inizialmente. Il brano seguente è, a mio avviso, uno dei più interessanti: Anonimo, infatti, è un pezzo che incarna alla perfezione lo spirito dell’album. Il testo, che descrive la torbida relazione tra una ragazza e un ragazzino più piccolo di 10 anni, è indubbiamente quello che tratta la tematica sessuale in maniera più esplicita, e pare che sia autobiografico: Mogol raccontò infatti che la sua famiglia era solita andare in vacanza con un’altra famiglia di amici che aveva una figlia più grande di lui di 10 anni appunto, e che quando lui era appena un ragazzino lei si fosse invaghita di lui e di conseguenza abbiano avuto una relazione clandestina. La cornice in cui si sviluppa la vicenda è quella di un paesaggio “anonimo”, appunto, tipicamente sudamericano. Anche questo è un pezzo musicalmente straordinario: la delicata intro cede soavemente il passo a un prog disparo estremamente interessante, proprio perché intriso di sonorità latine come accennavo prima e perciò unico nel suo genere. Nel finale si assiste a un cambio di tempo, anche questo tipico del prog, che carica l’atmosfera rendendola sempre più frenetica e inquietante (includendo anche un preludio della title track), per poi chiudere con un’autentica perla: una citazione bandistica de I giardini di marzo. Questo aspetto merita una nota a parte: onestamente non so quanti esempi esistano nella musica italiana di artisti che parodizzano sé stessi. In questo caso, l’intento di Lucio non potrebbe essere più chiaro: come disse lui stesso, intendeva raggiungere “l’azzeramento di una personalità monumentale”, non per autolesionismo, ma per riportare l’immagine ingombrante di cantautore osannato che si portava addosso a una dimensione più umana e meno mitizzata. Abbinata a questo, è innegabile che con questa parodia di sé stesso Battisti volesse trasmettere la sua già citata volontà di staccarsi dagli schemi preconcetti nei quali il pubblico e la critica volevano che rientrasse. Anche Gli uomini celesti è, a mio avviso, un pezzo molto notevole dal punto di vista musicale: molto bello l’arpeggio di chitarra iniziale così come tutto l’arrangiamento, raffinato e sognatore nella prima parte, psichedelico con contaminazioni latine nella seconda.

Qui Mogol si scaglia contro le facili illusioni del conformismo, rese attraenti dalle frustrazioni quotidiane, ma che riducono la persona a semplice attore di una commedia già scritta da altri, e dalle quali esorta ad allontanarsi per inseguire “orizzonti più vasti”. Anche di questo pezzo esiste una ripresa proveniente dalle prime registrazioni dell’album, di cui si è conservato solo un breve stralcio poi contaminato con le sonorità del disco. Il brano successivo, Anima latina, è un vero e proprio manifesto dell’album: un sublime ibrido tra sonorità brasiliane ed elettroniche, unito ad un testo (che Mogol stesso giudicò il più bello che avesse mai scritto) che descrive alla perfezione il momento in cui “musica e miseria diventan cosa sola”: quel momento in cui la musica diventa occasione di convivialità, di condivisione e di orgogliosa rivendicazione delle proprie radici, e che permette alla gente di affrontare lo squallore urbano e la miseria della vita con dignità, ma anche con l’allegria e la spensieratezza tipiche dell’animo sudamericano. Ne Il salame tornano le tematiche sessuali, ma stavolta affrontate dall’ottica di due bambini, che cercano di scoprirsi a vicenda senza riuscirci a causa dell’innocenza tipica dell’infanzia, perdendo perciò rapidamente interesse sull’argomento e rifugiandosi in una fetta di salame, appunto. Il pezzo fu sospettato di pesanti allusioni sessuali che in realtà, come ha chiarito lo stesso Mogol, sono del tutto assenti, in quanto il suo obiettivo era proprio raccontare l’ingenuo tentativo di due bambini di approcciarsi alla sessualità ma che non ci riescono perché, appunto, sono solo due bambini. La nuova America, altro chiaro omaggio al progressive tanto in voga in quegli anni, verrà ricordato per essere uno dei testi più brevi mai scritti da Mogol, essendo composto di soli 6 versi. Il brano seguente, Macchina del tempo, è anche questo uno dei più interessanti di tutto l’album: arrangiamenti molto sofisticati che adornano un prog disparo, cambi di tempo, una citazione di Abbracciala, abbracciali, abbracciati e un samba scatenato nel finale. Il testo affronta la contrapposizione tra l’amore libero e l’amore inteso come proprietà, che causa un profondo malessere e disagio esistenziale e che spinge i due ad allontanarsi reciprocamente. Proprio questo malessere fa da apripista alla traccia finale, Separazione naturale, anche questa con un testo tra i più brevi mai scritti da Mogol (addirittura soltanto 4 versi), ma che racchiude perfettamente l’epilogo dell’album: alla fine le contrapposizioni tra i due sessi, nonostante i continui tira e molla, inducono i due a separarsi, non senza qualche rimpianto (“ma se avessi il tempo per amarti un po’ di più”). Un pezzo che preso da solo magari non trasmette nulla, ma come chiusura di un disco come questo è semplicemente perfetto.

Anima Latina è anche al centro di un piccolo “giallo”: nei crediti le tastiere sono attribuite a un certo Gneo Pompeo, e ancora oggi nessuno può affermare con certezza chi si celi dietro questo pseudonimo: il principale indiziato è sempre stato Gian Piero Reverberi (le cui iniziali coincidono con quelle dello pseudonimo), il quale però ha dichiarato di non aver più collaborato con Battisti dal 1973, quindi un anno prima della pubblicazione del disco. Sono state fatte diverse ipotesi al riguardo nel corso degli anni, ad esempio Gabriele Lorenzi della Formula 3 (il quale però ha dichiarato di non saperne nulla) o addirittura lo stesso Lucio Battisti. Il critico musicale Michele Neri ha affermato di aver scoperto chi è, ma di non poterne rivelare l’identità come da volontà dell’artista, il quale non vorrebbe essere coinvolto. Ipotesi affascinante, ma non verificabile e perciò da prendere con le molle. Insomma, chi era Gneo Pompeo? A tutt’oggi rimane un mistero.

Come dicevo all’inizio, questo è esattamente il disco da ascoltare se si vuole veramente capire chi era Lucio Battisti. Un artista, per l’epoca, molto più d’avanguardia di quanto si credesse, e proprio per questo spesso non compreso pienamente, ma sempre “davanti al pubblico”, non dietro, perché per lui la cosa più importante era questa. Avrebbe potuto vendere il triplo dei dischi se avesse continuato a seguire la strada che lo aveva portato al successo, ma ha scelto di non farlo, pur consapevole che questo gli sarebbe costato molto in termini di vendite e popolarità. La sua musica ha sempre inseguito le innovazioni dei tempi, da lui viste come uno stimolo e un’opportunità per sperimentare orizzonti musicali sempre nuovi, nella speranza che anche il pubblico li capisse. Non sempre c’è riuscito. Ma quanto a staccarsi di dosso etichette ingombranti e stereotipi musico-culturali, beh, questo sì, c’è riuscito pienamente. E Anima Latina ne è la dimostrazione.

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