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GAG, SWING E ROCK’N’ROLL, E TUTTO QUESTO È GREG

Mediafrequenza incontra Claudio Gregori, in arte Greg, per parlare del recente disco ispirato ai classici del repertorio swing. “Vasco Rossi e Ligabue? Non fanno rock”

di Davide Iannuzzi

Il nuovo progetto musicale di Claudio Gregori, in arte Greg, condiviso con il Maestro Massimo Pirone e supportato dalla recente pubblicazione del disco intitolato “A swinging affaire” conferma la poliedrica vena artistica di un personaggio multidisciplinare, capace di reinventarsi il passato anticipando il futuro. Musica e comicità, intellettualismo e demenzialità, tutto nella coerenza di un percorso fatto di sottili equilibri e vecchie tradizioni, “smolecolate”, centrifugate e nuovamente reimpastate, secondo la ricetta di uno stile rivoluzionario e di una personalissima e inequivocabile modernità, leggera e tagliente. Da poco terminato di scrivere a firma congiunta con Lillo la sceneggiatura di un nuovo film, Greg parla del momento storico della musica italiana, di falsi rock e slogan sbriciolati sotto il peso di modelli culturali troppo spesso citati e raramente acquisiti e metabolizzati.

Greg, partiamo dall’allestimento orchestrale di questo tuo nuovo progetto discografico realizzato con Massimo Pirone e intitolato “A swinging affaire”..

Si tratta di tre diverse formazioni capitanate sempre da Max Pirone, di cui un’orchestra formata da 18 elementi, difficile da collocarsi per motivi di budget, oltre che per le attuali restrizioni. Massimo ha poi messo su altre due formazioni di cui una è un quintetto con trombone, sassofono, batteria, contrabbasso, pianoforte e voce, l’altra è un sestetto con quattro tromboni e con arrangiamenti ad hoc per questo strumento.

Un progetto che sembra concepito per il live. Come è nato l’incontro con Pirone, il lavoro di selezione dei brani e la loro reinterpretazione?

L’incontro con Pirone riale al 1996 per un disco di Latte e i suoi Derivati. Includemmo un brano in cui servivano i fiati e Max ricoprì appunto il ruolo di trombonista. Poi facemmo dei concerti dove c’erano i tre fiati, trombone, sassofono e tromba. I contatti con Max sono rimasti, e al di la della mia principale passione che è il rock’n roll, quel tipo di musica da crooner mi ha sempre affascinato e la condividiamo piacevolmente. Lui è un grande ammiratore di Sinatra, io di Dean Martin. Qualche tempo fa mi propose di metter su un repertorio del genere. Mi ha sempre divertito la sfida con me stesso nel riuscire a mettere il testo in brani che per natura sono più adatti alla lingua inglese, fatta di parole ossitone(tronche), mentre l’italiano è una lingua piena di parole parossitone e proparossitone, quindi sdrucciole e piane. Sfrutto parole anglosassoni entrate nel nostro linguaggio comune e mi diverto a scomporre alcune di esse che diano inizialmente l’idea della parola tronca per poi riallacciarsi alla fine con fluidità. Mi sono quindi divertito ad adattare in italiano il repertorio di alcuni testi. Alcune volte rispettando il senso del testo originale, altre volte stravolgendone la storia e basandomi su un tipo particolare di fonetica, al fine di trovare una storia tutta mia. Per certi versi mi sento particolarmente orgoglioso del risultato.

Vista la naturalezza di come la fonetica italiana meglio si appoggi sulla melodia, e meno su strutture ritmico/armoniche sincopate come nel caso del jazz, immagino che tale sfida sia stata tutt’altro che semplice….

E’ una sfida che porto avanti da quando ho iniziato a comporre musica negli anni settanta, un cimento che mi piace affrontare. Io sono dell’idea che la lingua italiana sia una lingua meravigliosa, anche se tanti lemmi sono caduti in disuso, ma poco, purtroppo, si adatta alla musica. Tant’è che i libretti d’opera erano pieni di parole come Desir, Cor, stratagemmi fonetici adottati per far rientrare il testo nel canto. E comunque, per quanto l’inglese sia entrato nella realtà italiana ancora non lo mastichiamo benissimo. Personalmente, pur cantando spesso in inglese cerco sempre di imprimere un tocco di ironia.

Nelle tue frequentazioni musicali sembra esserci un filo conduttore, l’amore per la cultura musicale americana, con le sue tradizioni che rischiano di essere ulteriormente eclissate da stili e mode passeggere..

Normalmente nella musica moderna ci sono brani che vengono facilmente dimenticati perché non hanno il giusto spessore. Mio padre ascoltava jazz e swing. A me lo swing non affascina molto. Da bambino ero molto attratto dal primigenio jazz degli anni dieci e venti. Nel 1977 ho scoperto il rock’n roll e negli anni questa è rimasta la mia passione principale. Ho esplorato molto gli anni sessanta e settanta e tutt’oroa mi intrigano band dei novanta come i Green Day o gli Offspring, oppure più di recente i Pixies. Ci sono realtà molto interessanti al di la del mondo mainstream.

Partiamo da questo punto per scivolare nel tuo percorso attoriale; il recupero delle tradizioni in musica è contrastato dalla totale rottura degli schemi, con copioni e acting, permeati da un personalissimo surrealismo comico. Possiamo parlare di due facce di una stessa medaglia?

Per quanto riguarda la fruizione, sia della musica che dell’umorismo in realtà entrambi partono da da un retaggio passato. Anche nell’umorismo mi sono formato, e tuttora ne sono appassionato, vedendo cose del passato. Essendo per natura molto curioso negli anni sono andato a rivisitare cose che vedevo da fanciullo, ma che a quel tempo potevo recepire con minor intensità. Dal versante italiano posso citare, Sordi, Tognazzi, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, Cochi e Renato, Walter Valdi, Felice Andreasi, diciamo la scuola che arrivava agli anni sessanta. Ho cercato anche realtà più particolari di quel teatro dei gobbi che era rappresentato da Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Luciano Salce, Alberto Bonucci, quest’ultimo rimpiazzato poi da Luciano Salce. Oppure dai libri di Campanile e di Marchesi. Oltre a questo sono andato indietro di qualche secolo, li dove si è formato l’umorismo. Poi c’è il versante americano di Groucho Marx, Jerry Lewis, Stanlio e Ollio, le commedie di Neil Simon con Walter Matthau e Jack Lemmon, fino a Woody Allen Mel Brooks, Abrahams e Zucker, quella prima cinematografia cosiddetta demenziale. Questo è il bagaglio da cui sono partito. In seguito ho perlustrato realtà più nuove, ma sul fronte umoristico le novità sono progressivamente diminuite. Negli anni ottanta ci furono i Giancattivi di Alessandro Benvenuti, Anita Cenci e Francesco Nuti, Alessandro Bergonzoni e più in avanti Antonio Rezza, un comico sardonico che tutt’ora mi fa impazzire. In America negli anni novanta a tutto il duemila c’e stato il duo Mr. Show di Bob Odenkirk e David Cross, in Inghilterra c’è Eddie Izzard e la sua stand-up comedy, non di quelle che parlano solo di sesso e politica.

In che modo questo bagaglio di fruizione artistica da parte tua si traduce in proposizione?

Si, questo bagaglio è scomposto, smolecolato e reimpastato con una lettura spontaneamente più moderna, lasciandone intatte le proprietà e l’essenza originali. Del surreale non se ne è parlato per molto tempo. Da Petrolini in poi il surrealismo finisce con Cochi e Renato. Questo stesso concetto è valido per la musica. Ad esempio ho un gruppo di musica rockabilly con cui proponiamo questo stile in chiave canonica. Poi ci sono altre formazioni, alcune ancora in fase embrionale, dove compongo brani di rock’n’noll più moderni e senza seguire la classica tradizione delle dodici battute o del blues più classico. Lascio intatta l’ossatura di base ma poi mi piace comporre in modo ibrido, lasciandomi guidare da un’ispirazione che risente delle varie influenze.

A proposito della più recente virata sanremese verso il rock, parlando di tradizioni consolidate quale è secondo te il confine tra contaminazione e profanazione?

Una volta Sanremo era la vetrina di quello che succedeva in Italia, dove a vendere dischi erano artisti come Iva Zanicchi, Albano, Ornella Vanoni che venivano chiamati a presentare canzoni nuove in una gara che metteva in mostra la musica che si ascoltava in Italia. Poi Sanremo ha preso un abbrivio diverso per cui la musica che si ascoltava in Italia non era più quella che veniva proposta a Sanremo, con molti artisti ripescati da altre vetrine e altre integrazioni come nuove proposte e Sanremo giovani. Da un paio di anni a questa parte si è tornati a proporre quello che si ascolta in Italia, per quei pochi dischi che vengono venduti nella fascia più giovane di pubblico, orientata verso Reggaeton e Trap. Quindi è giusto secondo me che al festival ci siano Trap e Reggaeton e non Toto Cutugno, il cui pubblico oggi non compra dischi, a differenza del pubblico dei Maneskin fatto di giovani orientati a questa forma giovanile di rock. Ci sarebbe da discutere anche sul significato di rock, visto che chiunque faccia musica viene definito rockstar. Si dice che siano rock Vasco Rossi, Gianna Nannini, Ligabue solo perché si sente una chitarra distorta o per un testo che parla della strada. Non si tratta di rock perché una loro melodia funzionerebbe benissimo anche con la voce di Renato Zero. Si percepisce dietro un parterre di origine tipicamente italiana, e non rock. La contaminazione se non è studiata a tavolino è sempre giusta e efficace. E’ sbagliato quando ad esempio ti definisci uno di sinistra che si appoggia alla retorica dello sfruttamento degli africani pensando di proporre la loro musica, che però non ti appartiene perché non ce l’hai dentro, indipendentemente da quanto sia ideologicamente e politicamente corretto denunciare lo sfruttamento umano. Così come io potrei scrivere delle piene del Tevere ma non certo di storie del Mississippi.

Di cosa potrebbe contaminarsi allora la tua musica?

Nel mio bagaglio possono esserci cose che ho ascoltato e che possono essere rimaste, mio malgrado, prigioniere nel mio dna. Potrebbe trattarsi di una struttura armonica di Cristina D’Avena o di Biagio Antonacci, con due o tre note che mi riecheggiano e mi risalgono su per poi entrare a far parte di qualcosa che scrivo. Un processo che si attiva quando nella vita hai ascoltato tantissima musica.

Allora cos’è profanazione?

Quando ti avvali di un bagaglio che non è il tuo, come ad esempio il blues napoletano, considerando che Napoli non ha nulla a che vedere con il blues, tant’è che i brani considerati blues che ha scritto Pino Daniele risultano molto scolastici e lontani dalla tradizione blues. Lui poteva fare del funky, ma il blues non c’entrava nulla con il suo repertorio. Ecco, questo è un caso, mi verrebbe da dire, di profanazione. Il blues è un linguaggio tipico degli afro americani.

Esiste un punto di incontro tra la nostra storia musicale e quella di respiro più internazionale?

Non va dimenticato che il primo brano jazz della storia fu inciso il 17 agosto 1917 da Nick La Rocca, siciliano di Salaparuta, e altri della sua jazz band erano di origine italiana. Molti cognomi italiani sono presenti nella storia del jazz fino ai nostri giorni, così come anche nella storia del rock’n roll, come nel caso del chitarrista del Bill Haley & His Comets Danny Cedrone, assieme ad altri quattro del gruppo sempre italiani, e molti crooner dello swing, da Louis Prima a Frank Sinatra, Dean Martin (Dino Paul Crocetti ndr), Bobby Darin (Walden Robert Cassotto ndr). Il nostro mood italiano si sposava bene con quei linguaggi d’oltre Oceano.

Dev’esserci qualcos’altro che tu e alcuni artisti che hai citato avete in comune. Ad esempio parte della versione attoriale di Dean Martin è affrancata dalla figura di Jerry Lewis. Torniamo al mondo del copione per parlare di alchimia della coppia; quale é il segreto del successo della coppia Lillo e Greg?

L’alchimia è importantissima, può essere casuale oppure architettata, posso citarti l’esempio di Stanlio e Ollio; avevano percorsi separati e fu Hal Roach a intuire che tra i due ci sarebbe stata un’alchimia. Poi alcune alchimie nascono spontaneamente come quella tra Dean Martin e Jerry Lewis, quest’ultimo con una terribile infanzia, che vede in Dean Martin, più grande di lui, una figura matura di tipo paterno e vincente. Poi il caratteraccio di Lewis rovinó la coppia. Nel caso mio e di Lillo ci siamo conosciuti in una casa editrice di fumetti nel 1986 e siamo diventati dapprima amici e colleghi fino al 1991, quando la casa editrice chiuse e rimanemmo disoccupati. Io e Paolo Di Orazio, che oltre a essere uno dei redattori della casa editrice era anche batterista proponemmo di metter su un gruppo basato su un mio repertorio di canzoni comiche, e nacquero così Latte e i suoi derivati di cui faceva parte anche Lillo. Il progetto iniziò a funzionare con noi due come frontman del gruppo e poi lavorando anche separatamente da Latte e i suoi derivati. Un’alchimia spontanea e alimentata dalle nostre diversità caratteriali, e da qualche richiamo o citazione non voluti come quello dei Blues Brothers di Dan Aykroyd e John Belushi.

Un’alchimia che funziona anche a ruoli invertiti..

Si, da quello più alto e slanciato carnefice, al traccagnotto che le prende, spesso invertiamo i ruoli e la comicità funziona ugualmente, come nel caso del nostro primo film in cooregia uscito lo scorso anno “D.N.A. – Decisamente non adatti” dove lui è il boro del quartiere periferico che mi vessa, e io nei panni di un professore che incassa i colpi. Anche se in linea di massima al pubblico piace di più quando io bistratto Lillo.

Hai parafrasato la tua attività da fumettista; un bozzetto può diventare canzone oppure gag. Questi due diversi orientamenti rispondono a una iniziale pianificazione o seguono l’istinto?

Mi abbandono all’istinto, a quell’intelligenza emotiva che in un microsecondo mi indirizza facendomi capire se quell’idea può andar bene spalmata su una canzone oppure diventare materia prima di uno sketch. Altre volte capisco che uno spunto per uno sketch può essere essenziale per essere ampliato per una commedia. Quando scrivo sketch radiofonici può capitarmi di essere metodico, pensando a idee da sviluppare poi in puntate successive.

Oggi molti gestori di locali famosi lamentano la costante sparizione di pubblico per molte delle proposte internazionali. Noti anche tu questo fenomeno?

Beh ricordo che con Latte e i suoi derivati facemmo diversi anni fa un concerto a Roma all’Ippodromo delle Capannelle e vennero a sentirci qualcosa come 10.000 persone. Poco dopo vennero i Beach Boys e a seguirli saremmo stati non più di duemila. Capisco l’affetto dei romani per Latte e i suoi derivati, ma faceva un certo effetto vedere così poca gente per i Beach Boys. Anche John Fogerty venne a suonare su quello stesso palco e ancora eravamo pochi ad ascoltarli, Si, questo calo di pubblico si registra da alcuni anni.

Quale è stato il periodo più florido per frequenza di concerti e presenza di pubblico per quanto ti riguarda?

Sicuramente gli anni ottanta e novanta. Negli ottanta suonavo tantissimo con i Jolly Rockers, almeno tre volte a settimana. Nei novanta con Latte e i suoi derivati arrivammo a fare dai quattro ai cinque concerti a settimana, tant’è che nel 1994 trovammo a Roma il Palladium, che ci consentiva di fare meno concerti e raccogliere più pubblico. Ora si sta vivendo un vero oblio.

Complice anche l’avanzata tecnologica con la grande disponibilità di supporti audio di bassa qualità che allargano lo spettro dei consumi?

In effetti oggi si da grande privilegio alla definizione sempre più perfetta dell’immagine, senza sgranature, realizzata magari con i telefoni. L’importanza dell’audio passa in cavalleria e provoca uno svilimento culturale. Ma poi, molti ascoltano musica dallo smartphone così come esce, senza neanche usare le cuffiette. Senza contare che tra il pubblico italiano c’è ancora chi, vedendo suonare un basso si chiede: perché quella chitarra ha quattro corde? Oppure: ma perché quella chitarra non si sente quando viene suonata? Poi quando il basso ha problemi di volume trovano che la band sia fiacca, senza capirne il motivo.

Vogliamo chiudere con il Cinema?

Durante l’inverno ho partecipato in un film di Paolo Ruffini, e in un’opera prima di una mia amica, Chiara Sani. Io e Lillo abbiamo scritto la sceneggiatura del nostro secondo film in cooregia sempre per Lucky Red. Se tutto andrà bene inizieremo a girare a giugno.

Uno speciale ringraziamento a Elisabetta Castiglioni

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