Dal processo creativo alla distribuzione fino alle uscite live, il lato oscuro di un’industria che procede sempre più ad alto ritmo
di Fabrizio Ragonese
Qual è quella cosa di cui tutti parlano ultimamente ma da cui tutti rifuggono non appena si prospetta la possibilità di metterla in pratica? Facile: la sostenibilità. Ne sentiamo parlare in tutte le salse e in tutte le varianti: sostenibilità ambientale, sostenibilità finanziaria, sostenibilità produttiva; pesca sostenibile, agricoltura sostenibile, e potrei continuare per chissà quanto. Quello di cui non si parla, e forse bisognerebbe iniziare a parlarne, è la sostenibilità musicale. Fare musica, produrre musica, lavorare con la musica: anche questo deve (dovrebbe) iniziare ad essere fatto in maniera sostenibile.
Già immagino la vostra domanda: sostenibile per chi? Per gli artisti, innanzitutto. Non molto tempo fa ha destato un certo scalpore l’annuncio del momentaneo ritiro di Sangiovanni. Bisogna dire che su questo è in ottima compagnia: più recentemente ha annunciato la cancellazione del veniente tour anche Angelina Mango, per non parlare di alcuni mostri sacri come Bruce Springsteen e Steven Tyler. C’è un però. Grosso come una casa. Questi ultimi, infatti, hanno dovuto interrompere le attività per problemi fisici, in particolare alla voce, comprensibile dopo una sfilza di tour estenuanti.
Sangiovanni l’ha fatto per un motivo ben diverso: per ritrovare “le energie fisiche e mentali”, come ha lui stesso commentato. Non soltanto un problema fisico, quindi. D’altronde, che qualcosa non andasse anche dal punto di vista psicologico lo si era capito fin troppo bene anche dal lungo post su Instagram in cui annunciava il suo temporaneo stop. E allora viene spontaneo da chiedersi quale sia la causa di un ritiro tanto improvviso quanto inspiegabile per un artista emergente fresco di partecipazione a Sanremo. Una possibile spiegazione ce l’ha data Federico Zampaglione, storico leader dei Tiromancino:
“Leggo sempre più spesso di giovani cantanti, che stritolati dalla macchina dell’industria musicale e dalla troppa pressione, decidono di ritirarsi oppure stanno molto male. È diventato tutto folle… i ragazzi vengono presi dal nulla e senza alcuna gavetta o reale percorso formativo, vengono sparati subito ai massimi livelli possibili del music business. Si pretende che ogni due mesi sfornino la hit, che riempiano stadi e palasport senza prima aver suonato mai neanche in un club. E se qualcosa comincia a non funzionare, li fanno scomparire in un istante”.
Zampaglione parla innanzitutto di gavetta: tanto bistrattata e disprezzata quanto necessaria. Necessaria perché appunto ti insegna a reggere la pressione gradualmente. Perché ti fa crescere come persona ancora prima che come musicista. Perché ti fa capire il tipo di musica che fai adesso e che vorrai fare in futuro. Cosa sei in grado di dare e cosa no. È in questo senso che va intesa la definizione di “reale percorso formativo”. È un po’ come entrare in una vasca di acqua molto calda: se lo si fa entrando un po’ alla volta può essere anche piacevole, nonostante qualche disagio iniziale. Ma se qualcuno arriva e ti schiaffa dentro di forza diventa traumatico.
Poi, le tempistiche, altro punto chiave del problema: come si fa a pretendere che un ragazzino senza alcuna formazione artistica, uno che magari di musica sa poco o nulla, sforni una hit ogni due mesi? È delirante. Non ci riescono neanche le vecchie glorie della musica, e lo si pretende da un ragazzino? E infatti quasi sempre sono altri a confezionare (mi sembra il termine migliore da utilizzare, perché è quello che trasmette meglio l’artificialità di questo tipo di musica) queste hit o presunte tali. Queste sono perversioni, non musica.
A questo punto la domanda è solo una e una soltanto: qual è la soluzione a tutto questo?
Se qualcosa diventa non più sostenibile, generalmente è perché ha raggiunto dei ritmi talmente elevati e forsennati da superare le reali capacità di gestione complessiva del sistema produttivo che ruota intorno a quella cosa, il che include anche tutti coloro che di quel sistema ne fanno parte. Perché è intorno a questo che ruota il concetto di sostenibilità. E questo è valido per qualsiasi attività di cui ultimamente si è messa in discussione la sostenibilità: la pesca sta diventando sempre più insostenibile perché ha superato le capacità di ripresa degli ecosistemi ittici, l’allevamento e l’agricoltura non sono più sostenibili perché vengono praticati con sistemi devastanti per l’ambiente e che incidono negativamente sulla qualità del prodotto finale (su questo torneremo più avanti), e così via.
In tempi abbastanza recenti alcuni esperti hanno avanzato un’ipotesi decisamente controcorrente, tanto che per la maggioranza degli economisti rappresenta un’autentica bestemmia, ma che meriterebbe sicuramente di essere presa in considerazione: la cosiddetta decrescita. Il ragionamento di base è che quando un processo produttivo non è più sostenibile, l’unica soluzione è rallentare quel processo, in modo da renderlo nuovamente gestibile. Produrre meno per consumare meno. Rispettare i naturali tempi produttivi anziché forzarli. Questo ha effetti positivi sia sull’intero sistema produttivo che sulla qualità del prodotto finale, qualunque esso sia. E perché questo non dovrebbe valere anche per la musica?
Il processo creativo di un pezzo musicale è qualcosa di estremamente complesso, perché richiede di materializzare e rendere fruibile qualcosa che fino a quel momento esiste solo nella testa del compositore, e richiede di farlo non in maniera approssimativa, ma fino a produrre esattamente il risultato desiderato. Un lavoro certosino e da realizzare col bisturi, insomma, ben lungi dall’essere un processo meramente tecnico. Ci sono stati brani o album che hanno richiesto anni per vedere la luce. Ma, vedendo i risultati, ne è valsa la pena. Ora, vedendo quello che è il livello generale della musica contemporanea, si può dire che tanta frenesia abbia prodotto risultati altrettanto soddisfacenti? Nutro fortissimi dubbi, per usare un eufemismo.
La verità è che questi ritmi deliranti hanno abbassato atrocemente la qualità della musica prodotta, con una standardizzazione tanto evidente quanto disarmante, sacrificando tutto e tutti sull’altare di una corsa all’ultima hit, che deve arrivare sempre e comunque prima di quella dei colleghi, una corsa folle le cui regole sono state scritte da non si sa chi, e nella quale pochi vincono, ma moltissimi perdono. Ché poi, cosa si vince in concreto? Soldi, download, riproduzioni, ospitate varie…. E poi? Oltre alla patina esterna, intendo dire. Ben poco, direi.
Quanti di questi pezzi verranno ricordati tra 20, 30 o 40 anni? Quanti reggeranno il confronto con le pietre miliari della musica italiana? Direi che la domanda diventa retorica. E allora vale la pena chiedersi: ne vale davvero la pena? Vale la pena portare gli artisti allo stremo delle forze fisiche e soprattutto mentali? Vale la pena ridurre la musica in questo stato? Perché non riportare tutto a un livello più umano, più sostenibile, appunto? Perché non ridare agli artisti il tempo di fare il loro lavoro, rispettando i tempi naturali della maturazione artistica (ed anche umana, è bene ricordarlo)? Perché non dare il tempo di elaborare, di sbagliare, di riprovare e di perfezionare quello che fanno? La qualità, quella vera, richiede tempo, lo sappiamo tutti. Diamo tempo anche alla musica. Chissà, magari potremmo rimanere piacevolmente sorpresi.